Venerdì blu

199549_1917053768104_1732383_nFino a strapparmi le corde vocali voglio dirti che ti amo anche quando mi fa male. E urlare del sapore del tuo dopobarba, dei passi rapidi in sneakers colorate. E Milano che è sempre più grigia. Sahara cittadini in corso Sempione. Treni che non portano mai a casa. Venerdì blu da unghie rosicchiate.Guardami ti prego quando il cielo intorno crolla. E si scrostano le pupille dai balconi diroccati che circondano i giardini condominiali. Strappami coi denti tutto quello che mi rimane. Dalle lampadine al neon nelle sale d’ingresso alle vene sottili delle caviglie. Cresceranno alberi intorno a quello che resta di noi. Gigli bianchi dalle orbite cave, edera pruriginosa su per le caviglie. Sempre più stretta, sempre più stretta. Corsie bianche, camici inamidati, tu che mi dici che Milano è un sanatorio a cui sanguinano gli occhi. Mettiamoci divise da militare all’ultimo grido, riempiamoci le tasche di polvere da sparo, disegniamoci con l’eye liner strisce nere a mò di blush. Milano è un campo da battaglia con il rossetto nero ciliegia.

Milano è deserta le sere di gennaio

Le labbra spaccate per il freddo e i cuori chiusi per risparmiare sul riscaldamento. Sognare di andare in posti lontanissimi con la pizza e la tv a pagamento. Di non prendere neanche un etto. Di peso e di colpa soprattutto. Lasciarsi alle spalle scie di briciole che dicano “no, non mi cercate.” Case di marzapane in periferie industriali e tu che mi dici che i lividi fanno meno male se ci premi. E io che ti dico che è una vita che ci premo e che continuano a fare male. Le biciclette, la darsena, le altalene innevate che cigolano appena, guardarti sottecchi dal bavero del cappotto. Milano è deserta le sere di gennaio. I nostro cuori sono deserti le sere di gennaio. Le sigarette fumate dal vento come i buoni propositi. Mettiti il tuo vestito più bello che stasera voglio sentire meno freddo. Voglio sentire meno le labbra che si spaccano. Voglio sentire meno i lividi che si ingrandiscono. Voglio sentire meno.

Accumuli su accumuli di infinito nei tuoi occhi

Ti guardo e in te vedo l’universo. Pianeti dentro la forma delle sopracciglia, stelle nelle pieghe dei polpastrelli. E accumuli su accumuli di infinito nei tuoi occhi. E dolore, libertà, compassione tutta dentro le linee sottili che ti circondano la bocca. Forme di vita aliene che parlano lingue sconociute ai più nei modi che hai di cambiare il tono della voce, l’inclinazione della testa, l’intensità della risata. Universi interi da scoprire. Universi interi che rimarranno sconosciuti. Le sfumature di colore della pelle tra il collo e la guancia, l’accavallamento dei nervi, le fibre dei muscoli dei gesti piccoli e pure di quelli immensi. Parlare, poi, dell’universo che è il tuo cuore sarebbe scontato a dir poco, parlare del flusso dei pensieri e di quello del sangue, dei sogni che fai quando ti guardo la domenica mattina prestissimo e di quelli che fai ad occhi aperti. Che poi, di universi che ho io negli occhi quando ti vedo, si potrebbe parlare fino a consumarci le corde vocali.

Come Vasco Brondi mi ha disimparato a scrivere

Una volta scrivevo molto alla Brondi che, per chi non lo sapesse, rappresenta uno degli ultimi risultati della musica indieperdente italiana, le cui frasi di punta hanno terribilmente e permanentemente, temo, rovinato la mia vita. Frasi del tipo: “rovistando tra i futuri più probabili, voglio solo futuri inversomili” e “maratone sulle tue arterie, sulle diramazioni autostradali, sui lavori in corso solo per farti venire” hanno plagiato un intero stuolo di ragazzine di fine anni 90 promettendogli quell’amore disperato, passionale e totalmente irrealizzabile. La prima volta che lo sentii fu al Bloom, fuori Milano, in compagnia di un’amica e di una vodka per signorine -alla pesca intendo- E alla fine del concerto non si sapeva più se ridere o piangere o entrambe le cose. Quasi 10 anni dopo Vasco Brondi non lo ascolto più, non scrivo usando in modo spropositato parole come: vene, ciminiere, fumo, periferia, occhi, autostrade e mi sento molto soddisfatta del risultato. Solo temo, anzi ne ho quasi la certezza, che il passaggio dalla vodka per signorine a quella per camionisti sia, in parte, dovuta alle frasi di punta di Vasco Brondi.

È tutta colpa di Capodanno

E finisce sempre che non si sa mai cosa fare per l’ultimo dell’anno. Che non si sa mai quando andare a comprare regali, scrivere biglietti, fare biscotti e compagnia bella. Che poi, in realtà, non si sa mai neanche quando andare a rinnovare la palestra, iniziare una dieta, salutare i vicini, depilarsi, prenotare quella lezione di pilates omaggio, scrivere poesie, fare la spesa, andare a un concerto, mangiarsi le unghie, dormire per giorni, decidere che è proprio l’ora di svuotare il garage, camminare su un prato, guardare i bambini giocare, bere cocktail annacquati e non pensare di stare pagando 10 euro per dei cocktail annacquati, strapparsi i vestiti,  dire cazzo si che ti amo, ti voglio bene, sei tutto, sei niente, ti odio, vai via, resta.  E se non c’è neanche il tempo per pensare a quando si avrà del tempo, di sicuro non c’è neanche il tempo per dire a te,persona imprecisata che ho tra gli amici su fb, cosa cazzo faccio a Capodanno. Anzi, una cosa ce l’ho il tempo di dirla: non faccio quello che fai tu.

Amori riduttivi

Il modo riduttivo in cui diciamo ti amo. Ogni tanto aggiungendo frasi spicce del tipo:ti amo per sempre, ti amo comunque vada, ti amo perchè sei la persona migliore del mondo, ti amo anche se non è abbastanza, ti amo anche quando sono stanca. Che poi, io, dietro al modo riduttivo in cui diciamo ti amo, vorrei metterci, non dico il mondo intero, che sarebbe un poco pretenzioso, ma almeno un paio di continenti, montagne, fiumi, le cattedrali, i baretti poco conosciuti della periferia milanese. Il modo in cui tolto il berretto ti sistemi i capelli, i calli delle mani, i tic nervosi, la marca di sigarette che fumi, il fatto che non mi hai mai chiesto di smettere di fumare, i posti che vorrei visitare, il vino rosso e pure quello bianco, il Magnolia, le labbra consumate, il modo di inclinare la testa quando parli. Che poi, invece, non faccio che dirti ti amo in modo riduttivo.

La nebbia, i vodka lemon e le rivelazioni

  
Ieri sera sono andata al Magnolia e faceva freddo e c’era la nebbia e tutti quegli stereotipi a cui la gente pensa quando pensa a Milano. C’era poca gente, le luci basse, un’infinita collezione di all star nere, dc martens, chiodi in pelle sintetica e capelli colorati. Suonava un tizio quasi sconosciuto ai più, un vodka lemon, una lucky strike durante le pause, un posto dove sentirsi a casa. Oggi non ho commenti arrabbiati, oggi c’è solo riconoscienza. Quasi quattro anni dopo, stesso luogo, musica diversa, diverse locandine, diversi, un poco, anche noi.

Storie di longette e mezzi pubblici

Ieri sera, che disgraziatamente era anche un sabato sera, che disgraziatamente era Milano, che disgraziatamente c’era il peggior vento mai visto, ho deciso di mettere una longette. E, nello stesso istante, ho deciso di prendere i mezzi pubblici. Ci sono così tante cose sbagliate in queste due frasi, che avrei dovuto accorgermene per tempo, ma dato che sono fortemente rincoglionita, femmina e in quanto tale vanitosa e totalmente dipendente dalle temperature dell’i phone, ovviamente ho fatto la cazzata. Me ne sono accorta nel momento in cui, ferma alla pensilina che prometteva un quarto d’ora di sconfinata sofferenza, ho visto due simpatiche cinesi, mamma e figlia annessa, con delle fantastiche palandrane catarifrangenti gialle che ridevano chiaramente della mia mise alla moda ma totalmente inutile. Per finire, questa scena di sconfinato degrado è stata completata da un’improvvisa grandinata e no, non ce l’avevo l’ombrello, che ha definitivamente distrutto la mia acconciatura. Quindi, Federica, la prossima volta che vuoi fare la vamp, prendi la cazzo di macchina